Durante il mio lavoro vengo spesso a contatto con persone che sono state vittimizzate: picchiate durante l'infanzia dai genitori, umiliate dai compagni di classe, in altri casi derubate, rapinate oppure stuprate. Alcune di queste persone hanno subito abusi psicologici per anni, sono state in relazioni tossiche che hanno sconvolto la loro vita o hanno ricevuto molestie sessuali al lavoro o in famiglia.

Al di là del mio lavoro, credo che ognuno di noi abbia conosciuto qualcuno che è stato vittima di qualcun'altro, e credo anche che ognuno di noi, nell'arco della vita, abbia purtroppo sperimentato la condizione di "vittima" in prima persona. Alcuni di noi più duramente, altri meno.

Poi in questi giorni apro i quotidiani, scorro la home di Facebook e leggo dello scandalo Weinstein, di come, ora che alcune donne hanno avuto la forza di parlare dopo anni di omertà e abuso di potere (ma non solo), vengano accusate di essersela cercata e di non aver detto di no. Se provate a fare qualche ricerca vedrete che è tutto un accusarsi reciproco.

Ovviamente non siamo noi i giudici, né spetta a noi stabilire se quest'uomo sia colpevole o no (io una mia idea me la sono fatta, ma non importa). Piuttosto, tutto questo turbinio ha riportato alla luce ciò che avevo studiato all'Università, nello specifico per un esame di psicologia sociale, e cioè la tendenza di noi esseri umani ad attribuire la colpa delle proprie sventure alle vittime (victim-blaming) piuttosto che ai perpetuatori del comportamento abusante.

Il victim-blaming può assumere diverse forme: può succedere in caso di stupro o molestie sessuali, ma anche in altre situazioni. Ad esempio se un ladro vi rubasse il portafoglio sul bus, estraendolo dalla tasca posteriore dei vostri pantaloni, e qualcuno vi rimproverasse perché avreste dovuto tenerlo in un luogo più sicuro, stareste sperimentando victim-blaming.

Ci troviamo di fronte a victim-blaming ogni volta in cui qualcuno inizia a pontificare su come avrebbe dovuto comportarsi una persona vittima di un crimine per evitare di essere coinvolta in esso (definizione tratta da questo articolo). Quando riflettiamo su che cosa avrebbe potuto fare quella donna per non essere violentata, quel ragazzino per non essere umiliato dai bulli, quell'uomo per non essersi fatto rapinare stiamo, anche involontariamente, cadendo nella trappola del victim-blaming.

Non sempre accusiamo direttamente le vittime per le loro sciagure, spesso sentiamo il racconto di un crimine ed iniziamo a pensare che a noi non sarebbe potuto succedere perché saremmo stati più attenti della vittima se fossimo stati nei suoi panni. E questo è victim-blaming nella sua forma più lieve e socialmente accettata.

Ci siamo caduti tutti, con sfumature diverse, e ci cadono coloro che accusano le donne stuprate di essersela andata a cercare. Ebbene... che cosa ci accomuna? Come mai tutti noi esseri umani, a diversi livelli e con diversa entità, cadiamo vittime di questo meccanismo? A che cavolo ci serve?

E qui scende in campo la Psicologia Sociale. Ciò che entra in gioco nel victim-blaming è la cosiddetta "ipotesi del mondo giusto" (teorizzata da Melvin Lerner nel 1980) e cioè la convinzione che le persone meritino, in qualche modo, ciò che accade loro. Spesso nella nostra cultura abbiamo bisogno di credere che ci meritiamo ciò che realmente otteniamo.

Difficile poter accettare che cose brutte e crudeli possano accadere a persone come noi, forse anche a noi stessi in prima persona. Attribuire una parte della responsabilità delle loro sventure alle vittime è un buon modo per proteggerci dal pensare che le stesse cose potrebbero accadere anche a noi, anche se non abbiamo fatto assolutamente nulla di sbagliato.

In sostanza le persone tendono ad incolpare le vittime per sentirsi al sicuro, per poter pensare che a loro non potrebbe succedere la stessa cosa.

E non sto parlando di persone in generale, in qualche modo l'abbiamo fatto tutti, anche inconsapevolmente!

Ma quindi che possiamo fare?

Siccome, secondo me, questo atteggiamento è abbastanza fastidioso (per non dire odioso, meschino e distruttivo) per chi sta nei panni della vittima, come possiamo fare per cambiare le nostre modalità quando ci accorgiamo di essere dei victim-blamers?

Prima di tutto un po'di sana empatia e di auto-disciplina non guastano! Ma c'è di più!

Nell'ultima parte di questo interessantissimo articolo, due ricercatrici (Laura Niemi e Liane Young) si sono rese conto che descrizioni dei crimini concentrate prevalentemente sulla figura della vittima favorirebbero il fenomeno del victim-blaming, mentre invece portare l'attenzione sulle azioni della controparte criminale permetterebbe, a chi legge le notizie, di attribuirvi una maggiore responsabilità.

Quindi, stando allo studio che ho citato sopra, anche il modo in cui la stampa parla di questi fatti potrebbe fare la differenza: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, concentrasi sulla storia e sulle esperienze delle vittime, anche se in modo empatico, potrebbe favorire la tendenza al victim-blaming.

Anche i valori morali, sempre nell'articolo di Niemi e Young, influiscono sulla tendenza a colpevolizzare le vittime rispetto ai perpetuatori dei crimini.

C'è dunque ancora molta strada da fare, sia nella comprensione di questo fenomeno così vile ma anche così diffuso, sia nella sua gestione.

Un primo passo importante potrebbe essere quello di smettere di giudicare e renderci conto che questi meccanismi ci servono per difenderci dalla paura di divenire vittime noi stessi.

Dovremmo poi iniziare a far pace con l'idea che le cose brutte capitano. A chiunque. Anche se non si "sbaglia" niente. E che "chiunque" include anche noi stessi e i nostri cari. Mi rendo conto che non è facile e che potrebbe essere faticoso o ansiogeno. Ma è così che funziona e non c'è nulla da fare se non accettare questa realtà.

Infine un altro passaggio fondamentale sarebbe quello di ammettere che, in un'azione criminale di qualsiasi tipo, la colpa è di chi la compie, non di chi la subisce. Punto.

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